News and Blog

Trust. Può la banca chiudere coattivamente un conto?

vedana_trust
Antiriciclaggio e ComplianceBanca d'Italia - UIF - MEFEconomiaNews

Trust. Può la banca chiudere coattivamente un conto?

A cura di Fabrizio Vedana

Una banca può recedere dai contratti di conto corrente stipulati con società interamente partecipate da un trust qualora la struttura renda impossibile alla banca l’identificazione del titolare effettivo.
Lo ha stabilito il Tribunale Palermo, sezione specializzata in materia di impresa, con un’ordinanza del 14 gennaio 2021.

I fatti
Le società ricorrenti, titolari di contratti di conto corrente bancario, invocano la tutela cautelare ex art. 700 cpc chiedendo al Tribunale di “accertare e dichiarare la nullità dell’art. 10 dei contratti di conto corrente, sia rispetto alla rilevata abusività dell’esercizio di recesso della banca, sia rispetto alla configurabilità di un vero e proprio diritto al conto corrente quale risulta dalla normativa anche sovranazionale… e conseguentemente, nelle more dell’accertamento della rilevata nullità contrattuale e dell’abusività della condotta, inibire alla banca di bloccare l’operatività dei conti correnti indicati in narrativa”.
Allegano in punto di fatto le ricorrenti di:

  • essere imprese di primaria rilevanza operanti nel settore edile siciliano e impegnate nella
    realizzazione di appalti anche di opere pubbliche;
  • di avere ricevuto fin da maggio 2019 la comunicazione immotivata, da parte della banca, di recesso dai predetti contratti e di avere invano adito l’Autorità Giudiziaria;
  • di essersi dunque rivolte alla maggior parte degli istituti di credito presenti sul territorio per tentare di aprire nuovi contratti di conto corrente, scontrandosi di fatto con un diniego generalizzato, peraltro formalizzato da due sole banche; -di avere reso edotta della circostanza l’odierna resistente che, “consapevole delle gravissime conseguenze che sarebbero state causate dalla chiusura dei rapporti, si è di fatto determinata a mantenere l’operatività di base dei conti corrente, cessando di fornire gli altri servizi contrattualmente previsti, ma permettendo alle società lo svolgimento delle innumerevoli operazioni quotidianamente necessarie e provocando il loro oltremodo legittimo affidamento in ordine alla prosecuzione di rapporti qualificabili in termini di essenzialità ”;
  • di avere ricevuto analoghe comunicazioni di recesso nell’ottobre 2020 da parte della banca che aveva continuato, tuttavia, ad adottare un “comportamento non lineare, foriero di ulteriore confusione, continuando a mantenere l’operatività dei rapporti, (pur cessando gli altri servizi accessori), ma ha addirittura sollecitato le società clienti a presentare domanda di finanziamento garantito previsto fra le misure statali di sostegno alle imprese per fronteggiare la crisi pandemica”;
  • di avere infine ricevuto un’ulteriore comunicazione in data 22.12.20 con la quale i funzionari di front office che intrattengono rapporti con le società rappresentavano di avere ricevuto diretta disposizione dalla Direzione Generale della banca, di procedere al blocco totale di tutti i conti a partire dal 31.12.20, con conseguente pericolo di danno grave e irreparabile insito nell’impossibilità di ricevere pagamenti e adempiere alle obbligazioni nei confronti dei dipendenti, dei fornitori e dell’erario se non in contanti, incorrendo così in violazioni anche penalmente rilevanti. La banca, ritualmente costituita, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso ex 669 septies cpc richiamando i provvedimenti di rigetto già resi da questo Tribunale (tanto in composizione monocratica, quanto in composizione collegiale), oltre che perché proposto in relazione a un’azione di mero accertamento. Nel merito ne ha chiesto il rigetto ribadendo la sussistenza del diritto di recesso esercitato e, per converso, l’insussistenza del “diritto al conto corrente” invocato dalle società ricorrenti.

Il tribunale rigetta il ricorso ritenendo, in sostanza, prevalente l’obbligo a carico della banca di adempiere alle vigenti disposizioni antiriciclaggio rispetto al “quasi-diritto” del cliente ad avere un conto corrente.

Un precedente che farà discutere
L’ordinanza in commento offre l’occasione per riflettere sul recesso ad nutum dal contratto di conto corrente e, in particolare, sulla sostenibilità, nell’attuale contesto economico caratterizzato dall’essenzialità rivestita dall’intermediazione bancaria per la gestione dell’attività d’impresa, di un diritto riconosciuto nella disciplina codicistica dei rapporti bancari di durata 1.
La controversia da cui scaturisce il provvedimento trae origine dal recesso da contratti di conto corrente, esercitato, ai sensi dell’art. 1833 c.c., da una banca nei confronti di quattro società appartenenti ad un medesimo gruppo d’imprese.
La peculiarità del caso risiede nella circostanza che le società erano titolari esclusivamente di quell’unico rapporto di conto corrente, avendo tentato, invano, di ottenere il medesimo servizio rivolgendosi a numerosi altri istituti di credito.
Lo scioglimento dei rapporti avrebbe così rischiato di provocare un blocco gestionale e operativo, considerando l’ormai centralità assunta dagli strumenti di pagamento dematerializzati, il cui uso è, peraltro, imposto da un articolato assetto normativo, funzionale al perseguimento di finalità anche di interesse generale, come, il contrasto all’evasione fiscale e la lotta al riciclaggio.
Le imprese lamentavano, inoltre, l’insussistenza di una causa giustificativa di recesso, mai esplicitata e comunicata, con la conseguente impossibilità di eventualmente adeguarsi alle esigenze della banca.
Dal canto suo l’istituto bancario rilevava come l’art.1833 c.c. non condiziona la facoltà di recesso alla ricorrenza della giusta causa, esprimendo piuttosto pieno riconoscimento alla generale autonomia dei privati di sciogliersi dai rapporti di durata.
L’ordinanza è particolarmente interessante per la dettagliata ricostruzione dell’attuale contesto normativo, sovranazionale e nazionale, che non renderebbe fumosa l’ipotesi di riconoscere l’esistenza, di un vero e proprio “diritto al conto corrente” e, comunque, la configurabilità del servizio in termini di “essenzialità”.
Non solo, infatti, gli strumenti di pagamento dematerializzati (si pensi a bancomat e carta di credito) hanno ormai quasi completamente sostituito la tradizionale moneta, ma l’uso del contante è addirittura vietato da diverse disposizioni normative.
Le società ricorrenti sottolineano per questo che, alla luce del quadro normativo interno e sovranazionale in materia di lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale e di tracciabilità dei pagamenti e in ragione della essenzialità che il conto corrente ha assunto ai fini dell’operatività delle imprese, sussisterebbe nel nostro ordinamento un vero e proprio “diritto al conto corrente”, sicché la banca resistente, dato il rifiuto opposto dalle altre all’apertura di nuovi rapporti, non potrebbe recedere da quelli in essere, che sono rapporti di conto corrente ordinari, privi di aperture di credito e recanti saldi attivi.
Il Tribunale di Palermo scrive che è innegabile che, alla luce dell’evoluzione normativa richiamata dalle ricorrenti e della sempre più diffusa dematerializzazione della moneta, la titolarità di un conto corrente sta diventando progressivamente indispensabile, non solo nei rapporti commerciali tra privati, ma anche nei rapporti tra il cittadino e le istituzioni, sicché da più parti si sostiene che sia configurabile un vero e proprio diritto a disporre di tale servizio. Ma, dice lo stesso giudice siciliano, è del pari innegabile che, de iure condito, nel nostro ordinamento tale diritto non sia configurato direttamente da alcuna norma, essendo, allo stato, soltanto all’esame del Senato della Repubblica, un disegno di legge (n. 1712/20) che prevede l’introduzione nel codice civile dell’art.1857 bis contenente la previsione, per un verso del divieto per le banche di esimersi dall’apertura di un rapporto di conto corrente e, per altro verso, del divieto di recesso da quelli in essere quando i saldi siano in attivo.
Si trattava quindi di verificare, nel caso esaminato, se la sussistenza del diritto invocato dalle ricorrenti, e dunque lo speculare obbligo a contrarre delle banche, siano configurabili in via interpretativa.
Essendo esclusa in radice nel settore bancario una condizione di monopolio legale, va innanzitutto esclusa, secondo il Tribunale, l’applicabilità analogica dell’art. 2597 c.c. Non altrettanto scontata sarebbe invece l’esclusione dell’applicabilità analogica dell’art. 1679 c.c. che, nei limiti della compatibilità “con i mezzi ordinari dell’impresa, secondo le condizioni generali stabilite o autorizzate nell’atto di concessione e rese note al pubblico”, prevede l’obbligo a contrarre per coloro che esercitano servizi di linea per concessione amministrativa.
E, infatti, pur essendo scomparsa dal Testo Unico Bancario la qualificazione dell’attività bancaria in termini di “funzione di interesse pubblico” (contenuta invece nella legge bancaria del 1936) e, pur essendo l’esercizio dell’attività bancaria subordinato al rilascio di una autorizzazione (art.14 co. 2^ TUB), per un verso non può affermarsi che l’attività privatistica delle banche e il conseguente fisiologico perseguimento da parte loro di obiettivi di efficienza e redditività, siano avulse dagli interessi generali che sono sottesi all’esercizio del credito e alla raccolta del risparmio (art. 47 Cost) e, per altro verso, va evidenziato (anche) che, a sempre più numerosi fini, è ormai indispensabile, quando non obbligatorio di fatto, dotarsi di un conto corrente bancario ordinario. Interessante anche lo “sguardo” che il Tribunale rivolge alle normative estere.
In Francia, precisa l’ordinanza, l’obbligo a contrarre delle banche (con riferimento all’apertura del conto corrente di base) è espressamente previsto dall’art. 312-1 del codice monetario e finanziario;
A livello europeo la direttiva dell’UE 2014/92 sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base, nelle premesse (35 considerando) afferma esplicitamente che “e’ opportuno evitare di discriminare i consumatori che soggiornano legalmente nell’Unione a motivo della cittadinanza o del luogo di residenza o per qualsiasi altro motivo di cui all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in relazione alla richiesta di aprire un conto di pagamento o all’accesso al conto all’interno dell’Unione. Inoltre, è opportuno che gli Stati membri garantiscano l’accesso ai conti di pagamento con caratteristiche di base a prescindere dalle condizioni finanziarie dei consumatori, ad esempio il loro status professionale, il livello reddituale, la solvibilità o il fallimento” facendo quindi intendere che l’apertura di conto corrente bancario sia un “quasi-diritto” per i cittadini europei.
A giudizio del Tribunale se pure si affermasse l’esistenza di un diritto al conto corrente, tale diritto andrebbe comunque esercitato nel rispetto delle norme di carattere generale e di settore che regolano l’esercizio dell’attività bancaria, a partire da quelle antiriciclaggio che pure le ricorrenti richiamano. Ebbene, come la banca resistente ha documentato, le società ricorrenti:

  • alla data della prima comunicazione di recesso (maggio 2019) erano interamente partecipate da una società fiduciaria con sede in Malta che a sua volta agisce in qualità di trustee di un trust;
  • alla data del 31.12.19, è stato nominato socio unico di tutte le società del gruppo una trust company italiana che “agisce in qualità di trustee del trust”.

La struttura sopra descritta aveva reso impossibile già nel 2016 alla banca, con riferimento a una delle società ricorrenti (e verosimilmente anche alle altre considerata l’identica compagine), in sede di redazione del “Modulo per l’identificazione e l’adeguata verifica della clientela, predisposto ai sensi degli artt. 15 e ss. del d.lgs. 231/2007”, l’identificazione del titolare effettivo del trust, né tale impossibilità risulta superata, in mancanza della necessaria documentazione che consenta di individuare l’assetto proprietario effettivo del gruppo.
Tale impossibilità avrebbe imposto alla banca destinataria della richiesta di apertura di un nuovo rapporto di conto da parte delle suddette società, di astenersi dall’instaurare il rapporto continuativo richiesto, secondo quanto previsto dall’art. 23 del già citato d.lgs. 231/07. Né assumono rilievo in senso contrario le modifiche introdotte alla disciplina del d. lgs. 231/07, dal d. lgs. 125/19 che ha potenziato e incrementato gli strumenti di lotta al riciclaggio.
E invero, le modifiche apportate all’art. 20 (rubricato approccio basato sul rischio) introducono al quinto comma un criterio di identificazione del titolare effettivo che è solo residuale e non vale certo a superare le esigenze di identificazione del reale beneficiario ultimo delle operazioni.
La norma prevede, infatti, che, allorquando il cliente sia una persona giuridica privata, il titolare effettivo vada individuato nella persona fisica titolare della legale rappresentanza, solo allorquando non sia possibile l’individuazione univoca del titolare effettivo alla luce dei criteri previsti dai precedenti commi.
Proprio il quarto comma, modificato dallo stesso decreto 125, prevede che “sono cumulativamente individuati, come titolari effettivi: a) i fondatori, ove in vita; b) i beneficiari, quando individuati o facilmente individuabili; c) i titolari di poteri di rappresentanza legale, direzione e amministrazione”.
Il sesto comma, a sua volta, nel testo modificato, prevede che i soggetti obbligati conservino traccia non solo delle verifiche effettuate ai fini dell’individuazione del titolare effettivo, ma pure “delle ragioni che non hanno consentito di individuare il titolare effettivo ai sensi dei commi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo”.
Non risultano inoltre in alcun modo modificati né l’art. 18 rubricato contenuto degli obblighi di adeguata verifica della clientela, né (per quello che riguarda l’attività bancaria) l’art. 19 che regola le modalità di adempimento degli obblighi.
Per tutti i motivi sopra esposti il Tribunale ha pertanto rigettato il ricorso, ritenendo, in buona sostanza, l’obbligo a carico della banca di adempiere alle vigenti disposizioni antiriciclaggio prevalente rispetto al “quasi-diritto” del cliente ad avere un conto corrente.

1. Per un più ampio commento si veda “CONTO CORRENTE E RECESSO AD NUTUM” di LALAGE MORMILE, ilCaso.it, 25 gennaio 2021.

Newsletter

Antiriciclaggio
& Compliance
Select the fields to be shown. Others will be hidden. Drag and drop to rearrange the order.
  • Image
  • SKU
  • Rating
  • Price
  • Stock
  • Availability
  • Add to cart
  • Description
  • Content
  • Weight
  • Dimensions
  • Additional information
Click outside to hide the comparison bar
Compare